FEBBRE DA TREKKING di Carlo Castagna

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FEBBRE DA TREKKING di Carlo Castagna

Durante il parto, il dolore è così forte che una donna può arrivare ad immaginare come si possa sentire un uomo con la febbre a 37.5

 

“Monsieur,….. monsieur Carlo! Venez, Il est prêt à manger!”

Sono a letto con 39 di febbre e una fastidiosissima tosse. Mi trovo a Dalaba, in Guinea Conakry.

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Sono rimasto solo. Il gruppo è partito per l’escursione al Fouta Djalon.

Con loro ci sono le guide ed è tutto sotto controllo, senza problemi.

Purtroppo la malattia mi ha colpito proprio il giorno della partenza ed ora, dopo due giorni di viaggio, si sta aggravando. Anche con i migliori propositi non sarei in grado di seguire gli altri; mi sentirei di peso con, oltretutto, il rischio di diventare un untore e pregiudicare le vacanze di qualcun altro dei miei compagni.

Anche una logica ragione di buonsenso induce a fermarmi per qualche giorno. Il contesto non è ostile. Ho una camera con un lettino confortevole, c’è l’acqua e la luce anche se solo di sera. Siamo a 1.500mslm ed il clima è piacevolissimo; non ci sono insetti e i padroni di casa sono veramente ospitali. AbdulKarim ha anche fatto lo chef per la mensa di una grande fabbrica in Senegal. Lui, sua moglie e sua figlia si prenderanno cura di me.

La febbre è sempre alta e non ho molta fame; tantomeno ho voglia di alzarmi dal letto ma, facendomi una grande violenza, mi alzo soprattutto per gratificare l’ospitalità dei miei anfitrioni. Ho appena preso un pastiglione di amoxicillina e sarebbe consigliabile mettere qualcos’altro nello stomaco.

Mi hanno atteso per cenare insieme ed il piatto è coperto come in un ristorante stellato. Chiedo scusa per il ritardo e mi accomodo vicino a Rama, la figlia di AbdulKarim. Si solleva il coperchio ed una nuvola di vapore si alza dal grande piatto di portata scoprendo un enorme naso di maiale arrosto appoggiato su di una specie di purè di tapioca. Il mio stupore è evidente tanto che tutti se ne accorgono. Rama mi spiega che loro sono musulmani ma….non proprio rigorosamente osservanti tanto che compaiono anche un paio di bottiglie di birra.

La solita spettacolare flessibilità africana.

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Mi servo un paio di cucchiai di tapioca e un piccolo pezzo di narice facendo attenzione nel selezionare la parte più depilata dalle setole residue.

Da padano, il musetto del maiale, è un articolo che mi è piuttosto familiare ma non ho molto appetito e non rendo grande onore al cuoco.

La tosse non dà tregua per tutta la notte e anche la febbre è costantemente alta. Rama dice che sarebbe prudente consultare un loro cugino che lavora al dispensario di Dalaba. AbdulKarim, preoccupato del mio scarso appetito, chiede cosa può preparare per pranzo. Gli chiedo, se possibile, di avere del riso con del pollo grigliato oppure lessato.

A metà mattina, vengo svegliato dal bussare alla porta. Si presentano in due apparentemente vestiti da muratore. Suppongo che debbano chiudere il grosso foro rimasto a testimoniare la passata presenza di un lavandino.

Si presentano come i parenti che lavorano al dispensario e si offrono di visitarmi. Innanzitutto sarebbe saggio escludere la possibilità di avere la malaria. Fortunatamente hanno il test istantaneo. Una punturina sul polpastrello, una goccia di sangue capillare e, in quindici minuti, il reagente ci fornisce l’esito che è negativo.

Misuriamo la temperatura e constatiamo che è ancora alta e mi confermano che ho la febbre. Mi sentono il torace con l’aiuto dello stetoscopio e stabiliscono che ho la tosse. Consigliano di prendere delle medicine. Gli mostro la scatola con la piccola farmacia da viaggio e, sorridendo, confessano che è più fornita della farmacia del loro dispensario. Il blister di Augmentin è in bella vista; dico che ho già cominciato la terapia raccogliendo la loro approvazione. Si congedano con cortesia invitandomi ad andare al dispensario in caso di peggioramento. Sono più sereno.

“Monsieur….monsieur Carlo! Venezia, il est prêt à manger” l’inconfondibile vocina di Rama squilla avvisando che è ora di pranzo.

L’aspettativa di un pollo alla griglia non mi entusiasma ma qualcosa bisogna pure mettere nello stomaco. Come la sera precedente, trovo AbdulKarim ad attendermi con i piatti di portata rigorosamente coperti. Mi accomodo e lo tranquillizzo riguardo le mie condizioni che sembrano migliorare. Scoperchia i piattoni con grande soddisfazione commentando il menù che, tutto sembra, tranne che pollo. “Calmar farci avec la Papaya!”, calamari ripieni di papaya.

Forse avevo scordato di dire che non mangio pesce, mi fa schifissimo! ma, onestamente, non mi ero posto il problema data la location montana e la lontananza dal mare. Comincio a benedire l’inventore delle barrette Enerzona di cui ho un discreto assortimento.

Nel frattempo, il gruppo manda notizie tramite l’efficientissima rete telefonica. Il trek nell’altopiano del Fouta Djalon è bellissimo e supera le aspettative. I villaggi di Ainguel e Douky sono situati in contesti geografici spettacolari. Il fiume Fetorè ha scavato il suo alveo attraverso un territorio unico formando piscine, cascate, fontane naturali che sorprendono i (pochi) viaggiatori che si avventurano da quelle parti. Anche gli abitanti dei villaggi, seppur toccati pesantemente dalla modernità, sono riusciti a mantenere una grande genuinità e, soprattutto, la loro dignità culturale.

Il 27 dicembre è una giornata speciale per il gruppo. Si festeggiano ben due compleanni, uno dei quali a ‘cifra tonda’. I festeggiamenti sono assolutamente imprescindibili! Anche se da lontano, riesco a contattare al telefono la bravissima guida Bouba e chiedergli di fare preparare una torta di compleanno.

“Pas de problème, monsieur!”.

La festa a sorpresa è riuscita bene. La torta è stata gradita e si è ballato e cantato fino a notte. Poi….tutti in tenda oppure ospiti presso le famiglie del villaggio.

Rasserenato dalle belle notizie provenienti dal gruppo mi appresto a condividere la cena. Ormai sono di casa e non mi faccio chiamare, sono puntuale anche perché comincio ad accusare i sintomi della fame ‘vera’. Arrivo a tavola senza che i piatti siano coperti. Vedo delle invitanti brochettes con il riso. “Ce sont des  brochettes de mouton rôti”. L’aspetto è molto invitante e mi servo golosamente. Sfilo un cubetto di carne che rimbalza sul piatto rischiando di rotolare per la tavola. Lo infilzo con la forchetta che, essendo di metallo molto sottile, si piega leggermente. Quando provo a tagliarla, il coltello poco affilato, riesce con fatica a svolgere il suo compito. Finalmente addento la carne e mi accorgo che i segnali che avevo notato in precedenza senza considerarli erano sintomatici di una consistenza dello spezzatino comparabile solo a quella di uno pneumatico da TIR. Tento inutilmente di masticare ma non riuscendo ad avere soddisfazione finisco con il succhiare la bistecca mescolando il tutto con un po’ di riso.

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I medicinali cominciano a fare effetto; mi sento meglio e decido di partire per Labe dove arriveranno i miei compagni di viaggio. Preparo il bagaglio e mi apposto lungo il bordo della strada in attesa di un taxibrousse il quale non tarda ad arrivare. Abdulkarim mi aiuta spiegando all’autista l’indirizzo della mia destinazione. Una volta arrivati a Pita dovrò cambiare mezzo e, in tre o quattro ore dovrei arrivare a Labe. L’automobile è una Peugeot 504, non ne vedevo una dal 1986. In Guinea tutti i taxi sono Peugeot 504 station wagon o ciò che ne rimane. All’interno saremmo in nove. Io sono alto due metri e peso 110kg, non bisogna certo essere un esperto di logistica per stabilire che nei sedili posteriori non ci sto e che posso occupare solo il sedile anteriore. Oltretutto, da solo perché nella configurazione standard dovrebbe essere un posto condiviso. L’autista fa scendere tutti e riposiziona rapidamente i passeggeri liberando miracolosamente il sedile anteriore ma dovrò pagare per due posti. Accetto con un minimo (minimo) senso di colpa. Il portapacchi è stracolmo di cose tenute insieme da una rete. Anche la mia borsa trova posto sotto la rete e finalmente partiamo. Lungo il percorso facciamo molte fermate per ritirare qualsiasi tipo di prodotto; sacchi di carbone, un vestito, bidoni vuoti, una bici, lettere e anche due mazzette di denaro contante. Evidentemente i taxisti sono molto affidabili e svolgono anche un ruolo di logistica sociale. Scendo al terminal dei taxi di Pita e devo cercare un altro passaggio per Labe. Ovviamente sono l’unico bianco ma non mi sento a disagio. Sono solo molto debole a causa della febbre e degli antibiotici assunti. Un ragazzino che urla “LABE, LABE” mi fa capire che c’è un taxi in partenza. Mi afferra la valigia e la lega al portapacchi. Stavolta sulla vettura siamo solo in quattro e posso sedermi sul sedile anteriore senza pagare il supplemento. Lungo la via carichiamo altre cose ed un paio di passeggeri e dopo un paio d’ore arriviamo al terminal dei taxi di Labe. Anche qui sono l’unico bianco. I ragazzi dei mototaxi mi chiedono dove sono diretto; uno di loro conosce il Tata Hotel che è nella prima periferia della città. Provo a chiamare il gruppo che, nel frattempo, dovrebbe aver raggiunto Leyfita ed avere visitato il Canyon di Indiana Jones. Riesco a mettermi in contatto e i racconti sono entusiastici. Passaggi strettissimi fra le rocce con una vegetazione particolare ed una straordinaria ospitalità da parte degli abitanti dei villaggi. Domani finalmente ci rivedremo. La proprietaria dell’hotel è una signora che ha lavorato come cuoca a Sassuolo e con il denaro guadagnato in Italia ha aperto questa struttura. Si chiama Tata e, ovviamente, parla un ottimo italiano che utilizza per raccontare come funziona la vita a Labe.

Andiamo insieme al Grand Marché de Labe, il mercato centrale, molto animato e ricco di bancarelle. Labe è la seconda città più popolosa della Guinea. Qui si incontrano tutte le etnie della regione per approvvigionarsi del necessario per sopravvivere nei villaggi di provenienza. Sono in maggioranza Peul o Fula; molti Mandinko e Susu. Guardandoli con attenzione e con l’aiuto di Tata riesco a distinguerne le caratteristiche fisiche. Le donne sono particolarmente belle e l’impressione è che….sappiano di esserlo.

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Osservare un mercato è sempre istruttivo. Si imparano le tradizioni e i costumi, si conosce la gente, si apprendono le usanze locali.

Mi siedo su una panca all’esterno dell’hotel Americain, prendo un thè e guardo il mondo girarmi intorno. I motorini sono tutti cinesi. Sono molto diffusi e in maggioranza nuovi. Vengono utilizzati come taxi fino a quattro persone. Le cose più curiose sono i taxibrousse. Più che automobili sono miracoli della manualità e della fantasia umana. Il logo le definisce come Peugeot 504 ma in realtà sono degli ibridi riassemblati innumerevoli volte; risultato di magie ingegneristiche che sfidano (e vincono) le leggi della meccanica. Sono l’emblema dell’Africa. Di come le necessità insegnino a non mollare mai; che l’indispensabile è quello che basta per arrivare a domani. Dopodomani è una previsione troppo a lungo termine. Si compra la benzina in bottiglia. Un litro alla volta; poi vedremo.

Sono un “frequentatore” dell’Africa dai primi anni 90. Ne ho viste di tutti i colori e ho difficoltà a stupirmi per qualcosa ma guardando un taxibrousse mi rendo conto dell’imprescindibilità del destino e, soprattutto, di quanto viziati siamo.

Il vociare inconfondibile di un gruppo di italiani mi sveglia dal pisolino che sto facendo disteso su di un amaca in giardino. Sono arrivati!!

Volti arrossati dal sole e striati dai rivoli di sudore fra l’impanatura di polvere rossa. Zaini sporchi, scarpe impolverate ma, soprattutto, enormi sorrisi. Abbracci e tanta voglia di raccontare per consentirmi di condividere le esperienze che purtroppo non ho potuto vivere con loro. I sorrisi si affievoliscono nel momento in cui comunico che non c’è il wifi!! Ma la delusione dura poco. Le bellissime emozioni vissute non si possono trasmettere attraverso Facebook ed i ricordi di quei momenti saranno proprietà solo di chi li ha vissuti nella realtà …..non virtuale.

“Monsieur,….. monsieur Carlo!…”


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